Alexander-Arnold racconta il suo percorso e le sue difficoltà a gestire le emozioni
Trent Alexander-Arnold è nato a Liverpool, nel 1998. A 6 anni entra nell’accademia del Liverpool e a 18 anni, nel 2016, fa il suo debutto in prima squadra. Da allora ha già giocato oltre 100 partite con i Reds. Ma un umile Alexander-Arnold, in un’intervista al Daily Mail, ha raccontato il suo percorso e spiegato come in realtà non sia sempre stato tutto facile.
Alexander-Arnold, da bambino, era uno di quelli che saliva sui cassonetti o scrutava attraverso le crepe della recinzione per vedere qualche giocata in allenamento di Steven Gerrard o dei suoi compagni.
La prima partita che ha visto da ragazzo è stata Juventus-Liverpool, quarto di finale di Champions League del 2005. Aveva sei anni e “la partita della Juventus ha cambiato il modo con cui pensavo al calcio”, racconta.
“Ero rimasto estasiato da ciò che avevo visto e provato quella notte. Le luci, la musica, i ragazzi che scuotevano la bandiera della Champions in mezzo al campo. Ha cambiato tutto per me. Quella notte ho capito che era ciò che avrei voluto fare, per sempre”
“Sono solo un normale ragazzo di Liverpool i cui sogni sono diventati realtà”. Dice Alexander-Arnold, che vive ancora a casa con sua madre. “E non ho intenzione di cambiare questa cosa”, dice riguardo la sua situazione abitativa.
Sua madre, Dianne, fin da bambino gli ha sempre spiegato l’importanza della comunità. Tra tutti i giocatori del Liverpool, è infatti quello che fa più presenze e attività sociali. Il giovane terzino inglese parla con il giornalista del Daily Mail proprio mentre visita Il centro St. Andrew, che serve come banca del cibo per la comunità nel nord di Liverpool.
Le persone contano su posti come il St Andrew per cibo, supporto e amicizia. A riguardo, Alexander-Arnold dice: “È un dispiacere sapere che questi posti esistono perché significa che qualcosa nel nostro paese non funziona. Ma vedere i ragazzi qui lavorare duramente per assicurarsi che altre persone possano avere un pasto caldo in questo periodo invernale, è bello”
“Mi ispira a continuare a fare queste cose per la comunità perché ci sono persone che stanno soffrendo. Tutti nella vita dovremmo avere una buona possibilità”
Nel campo verde, per Alexander-Arnold invece lo cose vanno alla grande. Oltre 100 presenze a 21 anni, la Champions League vinta la scorsa stagione e un solido primo posto in Premier League quest’anno. Ma c’era un periodo in cui il suo futuro al Liverpool era minacciato dai suoi problemi di temperamento.
“Non riuscivo a controllare le mie emozioni abbastanza bene e questo aveva un impatto negativo su di me e sulla mia squadra”, ricorda.
“Concedevo un gol agli avversari o facevo un errore e se non ero d’accordo con una decisione dell’arbitro, perdevo la testa. Sia in partita che in allenamento. Era come se la mia testa se ne andasse e la mia squadra iniziasse a giocare in 10. Entravo poi spesso in scivolata per sfogare le mie emozioni”
“Infatti mi dicevano che il mio aspetto mentale mi avrebbe impedito di arrivare ad alti livelli. Quindi lavorarono su di me”
“Alex e Critch (i suoi allenatori di allora, nel 2015) mi martellavano ogni giorno. Se facevo un errore si mettevano a ridere. Fermavano l’allenamento e facevano andare il miglior giocatore in uno contro uno con me. Se mi superava tutti esultavano”.
“Mi mettevano in un ambiente ostile per testarmi e migliorarmi e prepararmi a salire di livello. Mi dicevano che nel giro di qualche anno l’obbiettivo era di portarmi in prima squadra come terzino destro ma che se non avessi preso il controllo delle mie emozioni sarebbe stato impossibile che l’allenatore mi avrebbe voluto o apprezzato”
“Una volta pensavo che un errore fosse la fine del mondo. Adesso penso che se imparo da esso, allora ci sta. Ogni calciatore incanala le emozioni in modo diverso. Io mi sono calmato molto”
Alexander-Arnold è in prima squadra da tre anni, ma prima di fare il salto definitivo il timore di non essere considerato all’altezza “perseguitava” il giovane inglese.
“Mi allenavo con la prima squadra ma ho sempre temuto di essere rimandato ad allenarmi con l’accademia. Volevo restare in prima squadra e allenarmi con i senior. Pensavo che tutto potesse terminare da un secondo all’altro e questo forse ha aiutato, perché ogni giorno mi allenavo come se fosse l’ultimo visto, che temevo appunto di essere rimandato in accademia”
“Dopo ogni allenamento, per 3-4 mesi, Pep Lijnders (l’assistente allenatore) veniva nello spogliatoio delle riserve e mi diceva, “hey, domani sei di nuovo con noi”.
Poi un giorno sono tornato dalla pausa internazionale, stavo andando a prendere il mio kit e mi di dissero che era nello spogliatoio della prima squadra. Sono entrato e improvvisamente avevo un armadietto. Quello è stato il momento in cui ho pensato, “Si, all’allenatore piaccio“.
Fonte: calcioshow.tv
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